Due giorni prima del Natale del ’49 cominciò
a nevicare. Era un sabato dall’aria grigia che rendeva il paesaggio uniforme,
senza dimensioni e profondità, senza rumori. Nonna accese la legna nel camino,
che bruciò fino a Santo Stefano. Il Natale in campagna, a quei tempi, era il
periodo più importante dell’anno, per via del cibo una volta tanto abbondante e
per i regali per noi bambini. La santa veglia quella sera l’avremmo fatta in
famiglia, come da tradizione.
Mentre mamma e nonna stavano su
in cucina a preparare la tavola della vigilia (polanca al forno con funghi e
patate, presciutto di grotta, olive sotto sale, melarance con olio e zucchero,
ciambellone), io facevo compagnia a nonno nel tepore della stalla, in attesa
della cena. Stava affilando la falce fenara e dei falcetti con la pietra cote,
bagnandola ogni tanto con lo sputo, in quel plumbeo pomeriggio nevoso, e
ascoltava me che gli raccontavo delle mie estati passate dai nonni a Montevecchio.
Di tanto in tanto si bagnava la gola con un sorso di rosso. «L vino scalda
l core, arcòrdatlo», era solito dire. Io invece mi
riscaldavo i budelli con una scodella di latte appena munto e
sentivo nella pancia l’emozione dell’attesa dell’arrivo di Gesù Bambino, che in
un’altra lontana stalla stava, con la sua nascita divina, per portare speranza
ancora una volta agli uomini di buona volontà.
Dietro ad una balla di fieno,
allo scuro, fiottava la nostra gatta incinta, e dopo uno smiagolìo partorì due
micetti. Nonno portò via uno dei due, nato morto, mentre l’altra gattina si
scaldava nel calore del pelo della mamma. Diedi un po’ del mio latte alla
madre, mentre lei offriva il suo alla figlia, una miciotta grossa e paciosa, in
uno scambio circolare e familiare. La madre sembrava fiera di quella coincidenza
di calendario e si riposò beata per tutta la santa notte. La piccola sarebbe
cresciuta pigra e sonnacchiosa lungo tutta la sua comoda vita, assistente
interessata alle cucine di nonna. Restò abbonata alla pietra dell’arola del
camino, ad ascoltare la musica del foco, immobile come un granatello di saggina
o come un cuscino di penne. La chiamammo Ciafagna, ma di questo lei non si
adirò mai.
“Fin a Natale
n c’è freddo né fame,
da Natale n là
fame e freddo n quantità.”
Zì Merigo, il più religioso
della famiglia, ogni anno allestiva su una nicchia della nostra cucina un
modesto presepio, fatto di poche statuine di coccio disposte su una base di
vellutina. Trovavamo in un certo senso confortante sapere che Nostro Signore
nasceva in un alloggio ancora più misero del nostro, in una comunanza di stenti
e tribolazioni che mi rendeva simpatico quel bimbo biondo, con un braccio rotto
e l’altro benedicente. Omaggiammo la venuta del neonato Salvatore con una cena
finalmente ricca, replicata l’indomani con un pranzo a base di cappelletti insaporiti
in brodo di cappone. Dal giorno di Santo Stefano sarebbe ricominciata, nella
mangiatoia dei Paolini, la consueta quaresima.