giovedì 2 giugno 2016

Un due giugno raccontato




  Il due giugno 1946 era stato un giorno speciale per mamma e nonna (anche se lo fu per tutto il Paese) perché per la prima volta furono chiamate a votare. Fino allora le donne erano servite solo per cucinare o partorire figli o lavare mutande. In compenso avevano il diritto di mangiare con gli uomini, dopo averli serviti a tavola. A nonno faceva un po' strano quella novità, un segno di tempi nuovi difficile da comprendere. Voleva bene a nonna, questo sì: quando la madre gli morì presto lei gli fece da madre, moglie, sorella, socio, amante, confidente. Non sarebbe stato nonno Gaspare senza di lei. Ma da lì a pensare che avesse gli stessi diritti dell'uomo ce ne correva, per lui nato nel secolo precedente. Le tradizioni erano importanti, la saggezza dei vecchi andava ascoltata, come le parole degli uomini di chiesa. Ogni novità andava ben valutata, invece sembrava che dopo la Liberazione tutto fosse rivoluzionato: via il duce, via il re, via i padroni, via i preti. L'anarchia, insomma. Per questo voleva votare per la Monarchia, seppure il re durante il Ventennio non gli fosse piaciuto, fiacco e incapace. Il fascismo non gli sconfinferava per niente, come a nessuno in famiglia, gli sembrò sempre una tragica pagliacciata. Alla fine i maschi di casa votarono per la Monarchia e le donne per la Repubblica. Mamma in verità non era sicura, ma con zio e nonno che cercavano di convincerla in un modo, per reazione finì come nonna Amorina e, una volta tanto, fece l’opposto. 
            
                Si recarono tutti insieme al seggio elettorale (la nostra sbiadita scuola giallognola, nella piazzetta del castello), spaesati come polli appena liberati dalla gabbia la mattina dopo che ha spiovuto. Era come se andassero alla messa, o al cinema alla Pergola, o potevano sembrare fedeli di una processione laica, il cui mistero non si era ancora rivelato, ma verso il quale serbavano una fiducia cieca, naturale. Tutti con la massima dignità possibile, pur nella miseria sconfinata che avevano attraversato e che ancora li circondava. Non solo per le donne, anche per babbo era la prima volta. Mamma era maggiorenne da neanche un mese, a ventun’anni finalmente era divenuta matura per lo Stato, nonostante avesse in grembo già il terzo figlio e la spossatezza d’ogni anno vissuto di fatica ed affanni come fossero due. Davanti al seggio col tricolore i rappresentanti dei due schieramenti chiacchieravano sorridenti tra loro, insieme a due carabinieri, ciascuno sicuro della propria vittoria. Ma l’emozione non fu esclusiva delle donne, anche gli uomini sapevano che in qualche modo partecipavano ad un rituale dalla procedura sconosciuta e primordiale, che sarebbe divenuta usuale e rilevante. Annusavano l’aria nuova con lo spirito del marinaio che scruta l’orizzonte dopo la tempesta e cerca la rotta per riprendere la navigazione. Grazie a quelle croci tremolanti, i miei diventarono cittadini, contribuendo, con il loro mattoncino, all’impalcatura della giovane democrazia.