“La sera
del vennerdì santo
la Madonna fece n
pianto
fece n
pianto con gran dolore
la passione de nostro Signore…”
La sera del venerdì santo, dell’altrettanto santo anno 1950, andai alla
Pergola ad assistere alla famosa processione, per la prima volta. Ormai avevo
quasi cinque anni, ma babbo non voleva («se’ trop’
picqulo, e è freddo»). Insistei
con mamma, la quale alla fine acconsentì. Partimmo con Ninetto e zi’ Merigo,
che faceva parte della Compagnia del Cristo Morto. Zio aveva appena compiuto
trent’anni, ma ne dimostrava almeno dieci in più per via della testa stempiata,
per il grasso che gli spuntava in ogni parte del corpo e soprattutto per
l’espressione sempre malinconica, che sembrava guardare oltre lo spazio e il
tempo. Quando si vestì di quella tunica nera come la notte, per partecipare al
lungo corteo sostenendo la statua del Cristo morto o lo stendardo nero dietro
al vescovo, lo vidi persino più vecchio.
Eravamo già in aprile, ma faceva
ancora fresco, le nuvole dei giorni precedenti erano scomparse e l’aria era
tersa e metallica. Venendo su a piedi dal Mercatale già si vedevano le
luminarie rossastre accese alle finestre, mosse dalla brezza che soprattutto al
Parapetto soffiava fastidiosa, come se dovesse rappresentare ogni volta
l’ostilità dei cittadini verso noi che venivamo dalla campagna. «Làcciate la
giacca», disse la mamma a Ninetto, mentre uscivamo dalla bottega
della Nicolina con un cartoccio di dolciumi. «Prò questi li magnate domenica per
Pasqua, va bè?» I miei
quando venivano alla Pergola passavano sempre dalla Nicolina a comprarci delle
rigulizie o delle mentine, o qualche sigaretta per nonno. Si scendevano due
gradini e si accedeva in quell’antro scuro dal soffitto ad ampie volte, ricolmo
di bottiglie e di bocce di vetro, di cassetti di sale in cristalli, di orzo
tostato e di tranci di tonno sottolio, di vasi di ceramica carichi di carcadé
vermigli, di noccioline zuccherate, di stelle di anici profumate e di
ciaccarelle caramellate. Come mi sarebbe piaciuto poter disporre di quella
sessola per tirare su un po’ di chicche alla crema di mandorle o di confetti
colorati, aver mano libera da immergere nei bicchieroni dei semi di zucca
brustoliti o dei torroncini al miele.
Fu sulla cartapaglia della Nicolina che
cominciai a disegnare insieme a zi’ Odilia con il lapis grosso di nonno, quello
con il quale ogni luglio segnava sul muro bianco del magazzino i quintali di
cereali che produceva il raccolto. Arrivammo a San Francesco, salimmo a trovare
zi’ Elda, che era a letto con un po’ di febbre e le lasciammo degli ovi che
nonna Amorina ci aveva affidato dentro una crinella. Insieme a mio cugino Remo
varcammo quindi il massiccio portone della chiesa di San Francesco, da dove sarebbe
partita come tradizione la processione e sentii subito sulla faccia il rumore
pesante e trasparente di una vampata di calore e in bocca l’aria appannata e
consumata dalle candele e dai respiri salmodianti della gente.
L’odore dell’incenso bruciato mi tolse il respiro e mi
salirono le lacrime e tutto mi brillò intorno, le fiammelle tremolanti e i
riflessi dorati degli altari scuri. Tenni mamma per mano, mentre Ninetto insieme
a Remo andava avanti con le mani nelle saccocce a vedere il baldacchino sul
quale si replicavano annualmente i funerali del Salvatore. Quindi uscimmo e
provai per reazione ancora più freddo, soprattutto alle ginocchia, nella
striscia critica tra la fine dei calzoni e l’inizio dei calzettoni. Quando poi
alla partenza della processione la banda cittadina intonò le prime note lugubri
della marcia funebre, il cuore mi arrivò in gola e cominciai a bubbolare. «Co c’hai
Tino?», mi domandò mamma. «Niente, mà, solo n po freddo», ma in realtà lo stomaco mi si scuoteva ad ogni colpo
della grancassa e gli ottoni mi penetravano in testa con delle fitte insopportabili.
Quanto avrei voluto essere in quel momento davanti al camino con nonna Amorina
che mi racconta le storie, con la gatta Ciafagna appisolata sulle ginocchia, a
sorseggiare una bella tazza d’orzo nero bollente…
Per fortuna ci incamminammo, e potei battere i piedi per
calmare i brividi. C’immettemmo nel corso che mai avevo visto prima di notte,
le botteghe avevano abbassato le serrande e c’erano solo le tenui luci
biancastre dei lampioni, mi colpì quella massa di gente addolorata e
malinconica che aspettava per l’accompagno. Mi scaldavo la mano in quella della
mamma e le chiedevo cos’erano quei pagni scuri stesi ai davanzali delle
finestre. Ci portammo avanti nella processione camminando veloci sul marciapiede
ed intravedemmo zio che, tutto serio, teneva sollevata una piccola croce nera,
in mezzo a colleghi che stringevano i simboli della Passione di Nostro Signore.
Il giro del mortorio per fortuna non durò troppo tempo, riaccompagnammo Remo da
zia e tornammo a casa che non era tardi.
Sulla strada del ritorno una
luna slavata ci faceva strada tra le nuvolette sottili e veloci. Nonna era
appena andata a letto, dopo aver finito di preparare i cappelletti per Pasqua.
L’indomani come da tradizione avrebbe infornato le cresce col formaggio e le
pizze dolci con la glassa e i canditi che stavano lievitando nella mattra.
Babbo ci attendeva davanti al foco con una bottiglia scolata in precedenza in
compagnia di Modesto, il vicino di casa a cui piaceva vegliare da noi, che
aveva quasi il monopolio della narrazione di storie mirabolanti, e a noi musoni
dei Paolini non dispiaceva ascoltarlo. Zi’ Merigo arrivò stanco e incupito
(com’era giusto, per lo meno in quel giorno) un’oretta più tardi, appena in
tempo per ricevere il saluto sarcastico del fratello miscredente in mutande: «Dorme
contento, Merì, che tanto doppodomane è risorto…»