venerdì 14 aprile 2017

Un racconto di Pasqua



“La sera del vennerdì santo

la Madonna fece n pianto

fece n pianto con gran dolore

la passione de nostro Signore…”


La sera del venerdì santo, dell’altrettanto santo anno 1950, andai alla Pergola ad assistere alla famosa processione, per la prima volta. Ormai avevo quasi cinque anni, ma babbo non voleva («se’ trop’ picqulo, e è freddo»). Insistei con mamma, la quale alla fine acconsentì. Partimmo con Ninetto e zi’ Merigo, che faceva parte della Compagnia del Cristo Morto. Zio aveva appena compiuto trent’anni, ma ne dimostrava almeno dieci in più per via della testa stempiata, per il grasso che gli spuntava in ogni parte del corpo e soprattutto per l’espressione sempre malinconica, che sembrava guardare oltre lo spazio e il tempo. Quando si vestì di quella tunica nera come la notte, per partecipare al lungo corteo sostenendo la statua del Cristo morto o lo stendardo nero dietro al vescovo, lo vidi persino più vecchio. 
Eravamo già in aprile, ma faceva ancora fresco, le nuvole dei giorni precedenti erano scomparse e l’aria era tersa e metallica. Venendo su a piedi dal Mercatale già si vedevano le luminarie rossastre accese alle finestre, mosse dalla brezza che soprattutto al Parapetto soffiava fastidiosa, come se dovesse rappresentare ogni volta l’ostilità dei cittadini verso noi che venivamo dalla campagna. «Làcciate la giacca», disse la mamma a Ninetto, mentre uscivamo dalla bottega della Nicolina con un cartoccio di dolciumi. «Prò questi li magnate domenica per Pasqua, va bè?» I miei quando venivano alla Pergola passavano sempre dalla Nicolina a comprarci delle rigulizie o delle mentine, o qualche sigaretta per nonno. Si scendevano due gradini e si accedeva in quell’antro scuro dal soffitto ad ampie volte, ricolmo di bottiglie e di bocce di vetro, di cassetti di sale in cristalli, di orzo tostato e di tranci di tonno sottolio, di vasi di ceramica carichi di carcadé vermigli, di noccioline zuccherate, di stelle di anici profumate e di ciaccarelle caramellate. Come mi sarebbe piaciuto poter disporre di quella sessola per tirare su un po’ di chicche alla crema di mandorle o di confetti colorati, aver mano libera da immergere nei bicchieroni dei semi di zucca brustoliti o dei torroncini al miele. 
Fu sulla cartapaglia della Nicolina che cominciai a disegnare insieme a zi’ Odilia con il lapis grosso di nonno, quello con il quale ogni luglio segnava sul muro bianco del magazzino i quintali di cereali che produceva il raccolto. Arrivammo a San Francesco, salimmo a trovare zi’ Elda, che era a letto con un po’ di febbre e le lasciammo degli ovi che nonna Amorina ci aveva affidato dentro una crinella. Insieme a mio cugino Remo varcammo quindi il massiccio portone della chiesa di San Francesco, da dove sarebbe partita come tradizione la processione e sentii subito sulla faccia il rumore pesante e trasparente di una vampata di calore e in bocca l’aria appannata e consumata dalle candele e dai respiri salmodianti della gente.

L’odore dell’incenso bruciato mi tolse il respiro e mi salirono le lacrime e tutto mi brillò intorno, le fiammelle tremolanti e i riflessi dorati degli altari scuri. Tenni mamma per mano, mentre Ninetto insieme a Remo andava avanti con le mani nelle saccocce a vedere il baldacchino sul quale si replicavano annualmente i funerali del Salvatore. Quindi uscimmo e provai per reazione ancora più freddo, soprattutto alle ginocchia, nella striscia critica tra la fine dei calzoni e l’inizio dei calzettoni. Quando poi alla partenza della processione la banda cittadina intonò le prime note lugubri della marcia funebre, il cuore mi arrivò in gola e cominciai a bubbolare. «Co c’hai Tino?», mi domandò mamma. «Niente, mà, solo n po freddo», ma in realtà lo stomaco mi si scuoteva ad ogni colpo della grancassa e gli ottoni mi penetravano in testa con delle fitte insopportabili. Quanto avrei voluto essere in quel momento davanti al camino con nonna Amorina che mi racconta le storie, con la gatta Ciafagna appisolata sulle ginocchia, a sorseggiare una bella tazza d’orzo nero bollente…

Per fortuna ci incamminammo, e potei battere i piedi per calmare i brividi. C’immettemmo nel corso che mai avevo visto prima di notte, le botteghe avevano abbassato le serrande e c’erano solo le tenui luci biancastre dei lampioni, mi colpì quella massa di gente addolorata e malinconica che aspettava per l’accompagno. Mi scaldavo la mano in quella della mamma e le chiedevo cos’erano quei pagni scuri stesi ai davanzali delle finestre. Ci portammo avanti nella processione camminando veloci sul marciapiede ed intravedemmo zio che, tutto serio, teneva sollevata una piccola croce nera, in mezzo a colleghi che stringevano i simboli della Passione di Nostro Signore. Il giro del mortorio per fortuna non durò troppo tempo, riaccompagnammo Remo da zia e tornammo a casa che non era tardi.

Sulla strada del ritorno una luna slavata ci faceva strada tra le nuvolette sottili e veloci. Nonna era appena andata a letto, dopo aver finito di preparare i cappelletti per Pasqua. L’indomani come da tradizione avrebbe infornato le cresce col formaggio e le pizze dolci con la glassa e i canditi che stavano lievitando nella mattra. Babbo ci attendeva davanti al foco con una bottiglia scolata in precedenza in compagnia di Modesto, il vicino di casa a cui piaceva vegliare da noi, che aveva quasi il monopolio della narrazione di storie mirabolanti, e a noi musoni dei Paolini non dispiaceva ascoltarlo. Zi’ Merigo arrivò stanco e incupito (com’era giusto, per lo meno in quel giorno) un’oretta più tardi, appena in tempo per ricevere il saluto sarcastico del fratello miscredente in mutande: «Dorme contento, Merì, che tanto doppodomane è risorto…»